Comunicato Stampa tratto dal

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MINA NAPOLI SECONDO ESTRATTO


data di pubblicazione: 14 novembre 2003


Alcune delle più belle melodie italiane di sempre cantate dalla miglior cantante italiana di sempre. Ci perdonerete l’immodestia, ma la miglior definizione di “Napoli secondo estratto” è proprio questa. E anche chi non ama particolarmente le canzoni napoletane, anche chi non colleziona i dischi di Mina, converrà che questo disco è così importante e significativo che ogni sincero amante della grande musica dovrebbe possederlo... “a prescindere”, direbbe il Principe De Curtis.
Diciamo del titolo, innanzitutto: “Napoli secondo estratto”, con il suo trasparente, divertito e “smorfioso” ammiccamento alle estrazioni del Lotto - cerimonia che nel capoluogo campano ha da sempre un che di sacralmente pagano - rimanda a “Napoli”, il disco che Mina ha pubblicato nel 1996, nel quale rileggeva dieci episodi del repertorio classico e moderno della canzone partenopea. Come “Napoli”, anche “Napoli secondo estratto” è un “live in studio”; e se già in “Napoli” la versione dal vivo del quintetto era composta ed elegante, “Napoli secondo estratto” scarnifica ulteriormente la veste sonora, riconducendola al quartetto jazz (Danilo Rea, tastiere e pianoforte; Alfredo Golino, batteria e percussioni; Andrea Braido, chitarra acustica ed elettrica; Massimo Moriconi, basso e contrabbasso; più Gabriele Mirabassi, clarinetto) che dà una lettura essenziale e pulitissima degli spartiti, arricchita dagli archi e dall’orchestra magistralmente arrangiati e diretti da Gianni Ferrio.
Quel che ne risulta è un disco senza tempo, in cui né l’interpretazione vocale né l’esecuzione strumentale sono riconducibili a un “modo” o a una moda; tanto che ascoltandolo non è possibile datarlo, così come non sarà possibile datarlo a chi lo ascolterà fra vent’anni. E non soltanto perché la voce di Mina è splendidamente intatta e limpida, ma anche perché il suo canto è del tutto esente da vezzi e languori, da sottolineature e da melismi, così che sfugge al folklorismo mandolinistico (e qui di mandolino ce n’e’ uno solo, quello composto e per nulla “turistico di Giorgio Secco che colora “Maria Marì”, nell’ideazione sonora di Alba Arnova), così che non scivola mai in quel tanto spesso così irritante macchiettismo, in quella tanto spesso così indisponente inflessione parodistica, che purtroppo sono il limite e la colpa di molti fra quanti hanno esplorato il repertorio della ‘nobile’ canzone napoletana.
Mina tratta quel repertorio non come una raccolta di pagine di canzoni in dialetto (o meglio in lingua napoletana), ma come un grande canzoniere di ballad classiche, che hanno superato e trasceso il tempo della loro composizione e i riferimenti all’attualità storica o cronachistica. Come gli americani hanno George Gershwin e Cole Porter, noi italiani abbiamo la canzone napoletana: un patrimonio straordinario per quantità e qualità che qui viene rivisitato con rispetto, senza tradire l’emozione forte che ne è la cifra caratterizzante, ma trasfigurandola dal melodramma, salvandola dall’oleografia, liberandola degli eccessi da sceneggiata; e rendendo così quelle canzoni assolutamente, indiscutibilmente “classiche”.
E se questo vale, naturalmente, per gli episodi più antichi (primo fra tutti “Te voglio bene assaje”, la cui composizione è datata 1835, ma anche per “Era de maggio”, che è stata scritta nel 1885, o per “‘O sole mio”, che è del 1898), vale nella direzione inversa per i brani più recenti, come “Napule è”, pubblicata nel 1977, e per “‘O cielo ce manna ‘sti ccose”, che è stata composta nel 1964: brani che in questa rilettura conquistano lo status di classici, diventando pressoché indistinguibili da canzoni risalenti allo scorso o addirittura all’altro secolo. Un piccolo discorso speciale meritano i due titoli che chiudono l’album. Il primo, “Cu ‘e mmane” (da qualche giorno affidato alla programmazione radiofonica), è una canzone del tutto inedita, scritta dai napoletani Gianni Donzelli e Vincenzo Leomporro (gli Audio 2), che Mina ha voluto inserire in questo disco conferendole così la dignità di “nuovo classico”. Il secondo è “‘O cuntrario ‘e l’ammore”: una rielaborazione di una pagina di musica da camera di Giacomo Puccini (un quartetto d’archi scritto ed eseguito per la prima volta nel 1890) per il quale Mina ha chiesto a Gianni Ferrio una rielaborazione e a Maurizio Morante - frequente collaboratore di Mina, anch’egli napoletano verace - un testo ad hoc.
A proposito dei testi: anche i puristi più accaniti hanno sempre riconosciuto a Mina di essere una delle pochissime voci non napoletane a saper pronunciare impeccabilmente la lingua partenopea (che lei, lombarda, ama moltissimo). Questo un po’ perché Mina è così naturalmente ‘musicale’ da riuscire con efficace disinvoltura ad esprimersi in lingue diverse dall’italiano (come dimostrano numerosissimi episodi della sua discografia), un po’ perché anche in questa occasione non ha trascurato una preparazione severa confortata da esperte consulenze filologico- lessicali.
Ecco dunque “Napoli secondo estratto”: una copertina che esprime un sorridente e amabile omaggio alla napoletanità, con Titina de Filippo, Tina Pica e Totò (in vesti femminili) in un palco a teatro, tre icone così intangibili che Mina non ha voluto comparire nella scena, ma vi si è ritagliata una piccola apparizione spiandola da dietro una tenda - racchiude un disco dedicato, col cuore, a un patrimonio musicale di altissimo valore, e alla città e alla gente che l’hanno ispirato ed espresso.
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QUESTE LE CANZONI:


1. TU CA NUN CHIAGNE!
(testo)
Libero Bovio / Ernesto De Curtis

Composto nel 1915 da Libero Bovio (1883-1942) e da Ernesto De Curtis (1875-1937), questo brano divenne famoso grazie all’incisione che ne fece nel 1919 Enrico Caruso, capace di valorizzarne tutta la straordinaria tessitura melodica
Nel 1975 la canzone fu riproposta, in una versione personalizzata, dal gruppo vocale e strumentale “Il Giardino dei Semplici”, e si affermò come il loro più grande successo di vendita.

2. ‘O CIELO CE MANNA ‘STI CCOSE (testo)
Fred Bongusto / Armando Trovajoli

Si tratta di un brano della tradizione napoletana contemporanea. Infatti fu composto nel 1964, per i titoli di coda di “Matrimonio all’italiana” di Vittorio De Sica con Sophia Loren e Marcello Mastroianni, il film che riprendeva la commedia “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo.
Molto suggestiva è l’interpretazione del co-autore Fred Bongusto (1965).

3. TE VOGLIO BENE ASSAJE (testo)
Raffaele Sacco / A. Longo

È una canzone che ha fatto epoca, una pietra miliare della storia della canzone napoletana. Da più parti si ritiene che essa abbia segnato la nascita della vera canzone napoletana, la canzone d’arte, per la quale si cominciarono a stampare i testi su foglietti, che venivano distribuiti da venditori ambulanti (quasi sempre gli stessi editori), le cosiddette copielle. Se ne vendettero più di 180.000; il successo della canzone fu travolgente e se ne ebbero infinite imitazioni e parodie. Veniva cantata e fischiata in ogni angolo, in ogni via, diventando, per alcuni, una vera e propria ossessione, tanto che le cronache dell’epoca riportarono di qualche napoletano che, per timore di impazzire, fu costretto a lasciare la città.
Anche la Chiesa si interessò al fenomeno legato al successo di questa canzone, tanto che un prelato, il cardinale Riario Sforza, rimproverò, in verità in modo bonario, il paroliere Sacco per il contenuto di amore profano dei versi.
Intorno a questa canzone sorsero numerose controversie, sia per la data della sua nascita che per la paternità delle musiche. La tradizione attribuisce la musica al celebre operista bergamasco Gaetano Donizetti, intenso estimatore e autore egli stesso di canzoni napoletane come: “La conocchia”, “Lu tradimento”, “Canzone marinara”. Tale attribuzione fu forse dovuta al fatto che in quel periodo la canzone napoletana raggiunse, per quantità, ma soprattutto per qualità, livelli artistici inimmaginabili, coinvolgendo nella ricerca musicale autori colti come Bellini, lo stesso Donizetti e altri.
È però accertato che a musicarla fu Filippo Campanella, amico e compagno di sempre del paroliere, l’ottico Raffaele Sacco. Oggi è nota nella trascrizione che ne fece A. Longo.
Raffaele Sacco (1787-1872) compose la canzone nel 1835 cantandola per scherzo ad una festa tra amici. La leggenda vuole che la melodia di Campanella ed i versi del Sacco furono cantati dal popolo la sera stessa che l’avevano ascoltata in quella festa tra amici.
La canzone portò grande fama a Sacco, ma pochi soldi. Rimase un ottico nella sua bottega, la stessa che oggi i suoi eredi gesticono nello stesso posto.
“Te voglio bene assaje” venne presentata il 7 settembre del 1839 in occasione della festa della Natività di Maria Vergine, la festa di Piedigrotta.
In questa canzone si parla dello stato in cui è ridotto un innamorato per un amore non corrisposto o forse per una relazione irrimediabilmente e tristemente conclusa.
Il grande successo, che la rese così popolare può far pensare, però, a un testo dal contenuto tutt’altro che così triste e melanconico. Ma a Napoli si ironizza anche sulle proprie disgrazie!
Ad ogni buon conto, il brano, lasciatoci dal suo autore con testo scritto e firmato con nome e cognome, rappresenta l’atto di nascita della canzone italiana d’autore.

4. CARMELA (testo)
Salvatore Palomba / Sergio Bruni

“Carmela” è uno dei brani più noti di Sergio Bruni, un’altra grande voce della canzone napoletana che ci ha lasciati nel giugno di quest’anno, a quasi 82 anni.
All’inizio degli anni ‘70 Sergio Bruni aveva già scritto la musica di canzoni di grande successo, fra cui “Palcoscenico” su versi di Enzo Bonagura (1956) e “Na bruna” con Langella e Visco (1971), ma giunto al massimo della sua parabola artistica come cantante, comincia a porsi il problema della continuazione della canzone napoletana.
Viene stimolato - come amava spesso raccontare - da un articolo apparso su “Il Mattino” nel quale un noto esponente della cultura napoletana dichiara in un’intervista che secondo lui la canzone napoletana è morta.
Tuttavia, ad alcuni amici che lo invitano ad esprimere il suo disaccordo attraverso il giornale, Sergio Bruni risponde orgogliosamente che risponderà con la musica.
Decisivo, nel 1975, è l’incontro con il poeta Salvatore Palomba. Comincia a musicarne alcune poesie dal libro “Parole overe”, fra cui “Carmela” che diventerà un classico della canzone napoletana.
Un anno dopo viene pubblicato l’album “Levate ‘a maschera Pulicenella” con otto canzoni (tra cui “Carmela”) su versi di Palomba e musiche sue, ispirato alla Napoli attuale.

5. NAPULE È (testo)
Pino Daniele

Il noto brano di Pino Daniele fa parte del primo album pubblicato dal cantante, e cioè “Terra mia” del 1977.
Si tratta di una bellissima canzone melodica, di notevole qualità tecnica sia musicale che vocale, tale da essere paragonate molto spesso ai più grandi classici napoletani dell’800 e d’inizio secolo. “Napule è” nasce come canzone di ammirazione nei confronti di Napoli, ma al tempo stesso di forte denuncia; l’uso di mandolini e al tempo stesso di chitarre elettriche, la forza di una voce calda e molto ricercata, la presenza di un testo bellissimo interamente in dialetto ha reso la canzone una delle più riprodotte e più ricordate.
Pino Daniele ha sempre riproposto “Napule è” nei suoi concerti live. Anche nella serie di concerti dell’estate 2002, con De Gregori, Ron e la Mannoia, questo brano veniva rieseguito in coppia con De Gregori.

6. MARIA MARI’! ... (testo)
Vincenzo Russo / Eduardo Di Capua

Questo brano rappresenta uno dei più classici esempi della serenata napoletana.
Fu scritto nel 1899 da Vincenzo Russo (18976-1904) e Eduardo Di Capua (1875-1917)
Sempre suonata di sera sotto il balcone della fanciulla amata, la serenata ha espresso i più comuni trasporti d’amore, compreso il dispetto. Prevalentemente sentimentale, il ritmo della serenata è basato sul tempo 3/4 o 2/4, e qualche volta, per soggetti più allegri è stato usato il tempo tagliato.
Le serenate erano in gran voga a Napoli sin dai primi anni del ‘200, ed erano tanto frequenti da generare fastidio. Nel 1221, infatti, l’imperatore Federico II, per le tante istanze pervenutegli dai napoletani che protestavano contro i cantori che al tramonto turbavano il loro sonno con canzoni d’amore, con un apposito bando, vietò l’esecuzione delle serenate.
Giuseppe Godono può considerarsi il cantante preferito dai poeti d’inizio ‘900 per affidargli le proprie serenate. L’interprete, infatti, vanta nel suo repertorio, numerose serenate di grande notorietà: “Serenata a Pusilleco”, “Serenata a Surriento”, “Serenata napulitana”, “Serenata sincera”, “Voce ‘e notte”, “Nun t’affaccià”, e, appunto, “Maria Marì!”.

7.‘O SOLE MIO (testo)
Giovanni. Capurro / Eduardo Di Capua

È certamente la canzone più nota di tutto il reportorio napoletano.
Ma è interessante seguire la storia di “’O sole mio”. La canzone ha 105 anni, essendo stata pubblicata nel 1898 dalla casa editrice Bideri di Napoli, che l’aveva acquistata per 25 lire dai suoi autori: il musicista Eduardo Di Capua (1865-1917) e il poeta Giovanni Capurro (1859-1920).
Uno degli argomenti ricorrenti di certa stampa a caccia di polemiche è l’inno nazionale. Secondo alcuni il vero inno nazionale potrebbe essere proprio “’O sole mio”: la sua semplice e bella melodia rispetta tutti i canoni della tradizione musicale e, se non altro, è il nostro motivo più conosciuto nel mondo. Pochi sanno tuttavia che questo motivo, entrato nel DNA di tutti gli italiani, fu composto in Ucraina. Il suo autore, il napoletano Eduardo Di Capua, fresco di studi di conservatorio, aveva già composto melodie destinate a diventare dei classici (“Maria Marì”, “I’ te vurria vasa’”, “Torna maggio”); negli ultimi anni dell’800 era all’estero con suo padre Giacobbe, violinista in una piccola orchestra. Una mattina, durante una sosta ad Odessa, dai vetri della finestra dell’albergo il giovane musicista è colpito dalla luce del sole sul Mar Nero. In un impeto forse di nostalgia, compone le note centrali di questa canzone, sui versi che gli aveva consegnato il poeta Giovanni Capurro a Napoli prima della sua partenza. Una volta tornato a Napoli, Di Capua rifinisce il brano con l’aiuto di un suo giovane collega, Alfredo Mazzucchi, e consegna la composizione all’editore Bideri ritirando il compenso forfettario che le case musicali destinavano allora agli autori in cambio dell’utilizzo incondizionato del brano (siamo nel 1898 e solo qualche anno più tardi verranno riconosciuti i diritti d’autore).
A settembre, “O sole mio” viene presentata al concorso musicale “Tavola Rotonda” con i nomi di Capurro e Di Capua e, come seconda classificata (anche se sullo spartito fu poi scritto “prima classificata”) ottiene un premio in denaro. Questo sarà l’unico compenso percepito in vita dai due autori, mentre sarà enorme il successo della Bideri. Di Capua rimane vedovo a 31 anni con due figli; per sopravvivere, farà il pianista nelle sale di cinematografo accompagnando dal vivo la proiezione dei primi film muti, e sembra che alla sua morte, avvenuta nel 1917, il suo pianoforte sia stato venduto per pagare i debiti lasciati insoluti. Altrettanta sfortuna arriderà a Capurro, che morirà tre anni più tardi in condizioni di indigenza senza la soddisfazione di veder riconosciute le sue doti poetiche.
Le royalties, che ancor oggi fruttano circa 150 mila euro all’anno, grazie alle nuove leggi sul diritto d’autore furono riconosciute dopo molti anni anche agli eredi di Capurro e di Di Capua, ma solo nel 2002 una clamorosa sentenza del Tribunale di Torino ha stabilito che i diritti di “’O sole mio” spettano anche al terzo co-autore Alfredo Mazzucchi, o meglio ai suoi eredi, visto che la causa da lui intentata nel 1969 è durata più di trent’anni, andando ben oltre le sue aspettative di vita (il musicista si spense novantaquattrenne nel 1972).
Si conoscono numerosissime versioni in tutti i generi musicali e in tutte le lingue: inutile cercare di enumerarle tutte. Dai cantanti lirici ai jazzisti, dai depositari della tradizione melodica agli interpreti del pop e del rock, tutti possono vantare “’O sole mio” nel proprio repertorio. L’edizione che ha più venduto in termini di copie discografiche (un milione di copie) è “It’s now or never” di Elvis Presley. Da notare che il testo inglese, pur essendo già stato composto nel 1901 (“Beneath thy window”), fu considerato troppo letterario e riscritto per l’occasione.
“’O sole mio” fece anche parte del repertorio di Josephine Baker e di Frank Sinatra. E poi, non c’è tenore italiano, da Caruso a Gigli, a Pavarotti, che non si sia misurato con le note di questa canzone.
Di “’O sole mio” scrisse anche Proust nella sua “Recherche”.

8.CANZONA APPASSIUNATA (testo)
E.A. Mario

E.A. Mario, il cui vero nome era Giovanni Gaeta, nacque a Napoli nel 1884 e morì nel 1961. Giovanni Gaeta, che si dilettava di poesia, scelse lo pseudonimo di E. (iniziale di Ermes come si firmava al giornale presso cui lavorava), A. (iniziale di Alessandro, redattore capo del suo giornale) e Mario (nome di una scrittrice polacca che dirigeva il giornale “Il Ventesimo”). Dopo alcune canzoni musicate da altri, E.A. Mario decise di musicarle in proprio, nacquero così: “Maggio, si’ tu”, “Funtana all’ombra” e “Io ‘na chitarra e ‘a luna”. Al grande pubblico nazionale, E.A. Mario, regalò “La leggenda del Piave”.
“Canzona appassiunata” fu composta nel 1922 e divenne un cavallo di battaglia di Tullio Pane.

9. ERA DE MAGGIO (testo)
Salvatore Di Giacomo / Mario Costa

Un altro classico della musica napoletana.
Fu composta nel 1885 da Salvatore Di Giacomo (1860-1934) e Mario Costa (1858-1933)
Nato a Napoli nel 1860, Salvatore Di Giacomo comincia la sua carriera come giornalista, occupandosi della terza pagina del “Corriere del mattino”, e dedicandosi con passione alla cronaca e alla illustrazione della vita locale napoletana.
Entrato a far parte dell’élite intellettuale napoletana, è però proprio l’atmosfera popolare a spingerlo a scrivere i versi dei suoi sonetti e delle sue prime canzoni: la prima è “Nannì”, scritta nel 1881, che apre allo scrittore e poeta napoletano una vera e propria carriera di “paroliere”; Benedetto Croce arriverà a definirlo “il poeta delle più belle canzoni”.
Scrittore anche di teatro, nel 1929 gli viene riconosciuto il titolo di Accademico d’Italia per meriti culturali.
Il repertorio di Di Giacomo è fatto di vicende e immagini, tratte da vicoli, carceri, tribunali, ospedali, fonte della sua produzione e in particolare del suo realistico teatro, che Di Giacomo sottrasse la letteratura napoletana al riduttivo bozzetto verista, importandovi l’anima più profonda di una città che presto si identificò nella sua poesia: temi e valori in cui i lettori si potevano riconoscere, come più tardi accadrà con Eduardo De Filippo. Ciò sembra spiegare il vasto consenso di pubblico alle sue prime canzoni, che in quegli anni validi artisti musicavano, quali Mario Costa per la petrarchesca “Era de maggio”.
Questo brano è stato recentemente reimperpretato da Franco da Battiato nel suo album “Fleurs”. In precedenza era stato interpretato anche da Teresa De Sio nell’LP “Toledo e Regina” (1986).

10.GUAPPARIA (testo)
Libero Bovio / Rodolfo Falvo

Il brano, che risale al 1914, è un altro classico della tradizione napoletana. Recentemente è stato rivisitato da Massimo Ranieri.
Amore e malavita nella Napoli di inizio ‘900 sono gli ingredienti di questa canzone-serenata scritta da Libero Bovio e Rodolfo Falvo, nomi storici della canzone napoletana.
Bovio riesce a snodare una serie di particolari dei modi di vita tipica di certi vicoli e quartieri, considerando il popolo tra il riscatto e l’accettazione della sua condizione disagiata.
Nel testo di “Guapparia” si coglie l’autentica poesia, l’ispirazione popolare e nel contempo ricercata, la perfetta aderenza agli schemi classici della canzone napoletana. Bovio è grande nella concezione ampia delle sue opere, sommo nell’affidare alla musica squarci di vita vissuta, visioni oniriche, desideri e sofferenze di un popolo.
Il canto di malavita si inserisce in un più ampio repertorio di canti di “carcere e mafia”, tipico dell’Italia del Sud.

11. I’ TE VURRIA VASA’! ... (testo)
Vincenzo Russo / Eduardo Di Capua

Il brano fu composto nel 1900.
Si tratta di uno dei testi più strazianti ed emozionanti della canzone napoletana.

12. CU ‘E MMANE (testo)
Audio 2: G. Donzelli - V. Leomporro

Brano inedito.

13. ‘O CUNTRARIO ‘E L’AMMORE (testo)
(Rielaborazione da “Crisantemi” di Giacomo Puccini)
Maurizio. Morante / Gianni Ferrio

È una pagina brevissima e quasi sconosciuta di Giacomo Puccini (1858-1924).
Il suo catalogo di musica da camera annovera pochissimi lavori: uno Scherzo in la minore, un Quartetto in re maggiore, alcune Fughe e tre Minuetti, sempre per la formazione classica di quattro archi.
Si tratta di una pagina garbata e commossa, segnata da una mestizia espressa con un sentimento eseteriorizzante. Lo svolgimento è in forma ternaria. Risalta una più controllata e raccolta sezione centrale, che peraltro non contraddice il clima complessivo.
“Crisantemi” fu composto subito dopo la morte – il 18 gennaio 1890 – del quarantacinquenne Amedeo di Savoia, secondo figlio, molto popolare, del re d’Italia Vittorio Emanuele II, e venne eseguita per la prima volta già nella settimana seguente a Milano – con un successo così grande che si dovette ripetere nel medesimo concerto.
Puccini evidentemente non aveva dato all’inizio grande importanza a questo lavoro, che invece fu subito stampato da Ricordi, poiché nell’abbozzo lo indica solo come “Breve improvviso”. Ma in seguito (forse anche grazie al rapido successo ottenuto da queste composizioni) impiegò il materiale musicale di “Crisantemi” nell’atto finale della sua “Manon Lescaut”, alla quale egli già a quel tempo stava lavorando; questo ha fatto sopravvivere fino ad oggi “Crisantemi” e la rende interessante come via d’accesso al laboratorio compositivo di Puccini.

Archi arrangiati e diretti da Gianni Ferrio

1° Violino: Anthony Flint
Violini: Andreas Laake – Klaidi Sahatci - Walter Zagato – Barbara Ciannamea-Monte Rizzi – Yoko Paetsch – Susanne Holm – Piotr Nikiroff – Alessandro Milani
Viole: Ivan Vukcevic – Monica Benda – Ilaria Negrotti
Violoncelli: Johann Sebastian Paetsch – Jennifer Flint – Claude Hauri
Contrabbasso: Shiho Ferrari
Corno: Georges Alvarez
Flauto: Bruno Grossi

Hanno suonato:

Pianoforte organo e fender: Danilo Rea
Batteria e percussioni: Alfredo Golino
Basso e contrabbasso: Massimo Moriconi
Chitarra acustica e elettrica: Andrea Braido
Clarinetto: Gabriele Mirabassi

Coro bambini: Alessio Donzelli – Giuliana Di Girolamo – Pina Pollio – Benedetta Pollio – Luca Ciervo – Alessandro Ciervo – Daniela Minopoli – Erika Infantocci – Veronica Flocco

“Maria Marì!…”ideato e realizzato da Alba Arnova presso lo studio M.O.P.S. di Roma.
Mandolini: Giorgio Secco

“Cu ‘e mmane” arrangiato da Massimiliano Pani e Nicolò Fragile
Tastiere e programmazione: Nicolò Fragile
Chitarre: Giorgio Cocilovo

Il coro di bambini di “Napule è” è stato registrato nello studio di Gianni Donzelli a Napoli

Tecnico di registrazione, missaggio e mastering Ignazio Morviducci
Controllo mastering eseguito presso Elettroformati da Ignazio Morviducci e Alessandro Cutolo.

Prodotto da Massimiliano Pani

Un grazie a Alba Arnova, Ugo Bongianni, Gianni Donzelli e ai bambini del coro

Copyright GSU 2003

Le tracce audio le puoi ascoltare su www.minamazzini.com

 

Commento di Federico Vacalebre de "il Mattino" di Napoli 

In copertina (del fido Mauro Balletti) ci sono Totò (in abiti femminili), Titina De Filippo e Tina Pica che se la godono in un palco del San Carlo. Nostra signora della canzone sbuca solo nella foto del libretto del cd, mentre sbircia dal sipario del teatro.
"Napoli secondo estratto" comincia così, col più delicato degli omaggi alla città canora per eccezione: Mina stavolta si nasconde per rispetto dei tre artisti da lei così amati, tanto dentro c'è la sua Voce, miracolo di tecnica e passione, controllo e libertà, teoria e pratica, cuore e sesso. Rispetto a "Napoli", il capolavoro del 1996, stavolta si confronta con i capisaldi del patrimonio melodico partenopeo, e quindi italiano, con qualche benvenuto sconfinamento nella contemporaneità. Alle prese coi più nobili ed internazionali standard di casa nostra sforna un disco controcorrente, lontano da qualsiasi moda, difficile da datare, elegantissimo, verace, destinato a diventare un punto di riferimento per quanti vogliano ancora cantare Napoli senza cedere ai vizi del belcantismo, ai cliché oleografici, all'eccesso neo e veteromelò.
L'ugola è quella, incomparabile, di sempre, ma anche il rispetto per il repertorio e la lingua (amici e conoscenti sono stati consultati a tutte le ore) affrontati, come la raffinatezza della produzione del solito Massimiliano Pani, concorrono alla realizzazione di un lavoro indispensabile per quanti amano questa tradizione sempre più a rischio di estinzione, difendibile e tramandabile solo con operazioni come quella etnica della coppia Ranieri-Pagani o come questa, che s'apre con la celebre "Tu ca nun chiagne" (Libero Bovio/Ernesto De Curtis, 1915), ricamata nel rispetto della sua sublime tessitura melodica, e subito dopo recupera da un ingiusto oblio e in chiave di deliziosa ballad "'O cielo ce manna 'sti ccose" (Fred Bongusto/Armando Trovajoli, 1964), vero classico mancato scovato nella colonna sonora di "Matrimonio all'italiana" di De Sica con Mastroianni e Loren, versione cinematografica di "Filumena Marturano".
Più degli archi arrangiati da Gianni Ferrio, è l'essenzialità della strumentazione jazzistica (un eccezionale Danilo Rea al pianoforte e l'organo, Alfredo Golino alla batteria e le percussioni, uno strepitoso Massimo Moriconi al basso e il contrabbasso, Andrea Braido alle chitarre, Gabriele Mirabassi al clarinetto) ad esaltare il canto libero di Mina, cesello vocale che respira, si ferma, rallenta, s'impossessa di parole e note, improvvisando come può fare solo chi è estremamente padrone di una materia amata, ma anche studiata. Tanto da prendere posizione nell'attribuzione di "Te voglio bene assaje", non più ascritta a Donizetti, ma alla coppia Sacco/Longo, come suggerisce la storiografia più recente, e soprattutto resa con lineare e sconvolgente limpidezza per passare con nuovo salto temporale a "Carmela" (Salvatore Palomba/Sergio Bruni, 1976) e "Napule è" (Pino Daniele, 1977), i più clamorosi esempi di classici napoletani moderni: il primo, entra nudo nel vico nero della città porosa, s'immerge nei suoi peccati e nei suoi incubi, ne divide i sogni e le passioni, ne ricerca l'armonia ferita, ne esplora il ventre, ne condivide la triplice essenza di rosa, preta e stella; il secondo ne smonta lo stereotipo (peccato però per quel coro di bambini e l'overdose chitarristica di Braido).
Poi arriva il blocco dei superclassici: "Maria Marì" (Vincenzo Russo/Eduardo Di Capua, 1899) si concede il mandolino di Giorgio Secco; "'O sole mio" (Giovanni Capurro/Eduardo Di Capua, 1898) si fa minimalista e svagato per evitare l'acuto finale; "Canzone appassiunata" (E.A. Mario, 1922) è un oceano di pathos in cui ci è dolce naufragare; "Era de maggio" (Salvatore Di Giacomo/Mario Costa, 1885) fa sfoggio di archi e fiati, forse in assenza di una chiave interpretativa, ma non certo di intarsi vocali; "Guapparia" (Libero Bovio/Rodolfo Falvo, 1914) rinuncia alle smargiassate e al paso doble per narrare il più universale dolore di un uomo tradito; "I te vurria vasà" (Vincenzo Russo/Eduardo Di Capua, 1900) merita di restare negli annali.
E, per chiudere, un'accoppiata provocatoria: il singolo post-mattoniano degli Audio 2 ("Cu 'e mmane") e "'O cuntrario 'e l'ammore", ovvero "Crisantemi", scritta da Puccini per la morte di Amedeo di Savoia, e poi riutilizzata nel finale della "Manon Lescaut", e qui revisionata da Gianni Ferrio su versi, più che dignitosi, di Maurizio Morante, altro habitué di Mina.
Catalogare alla voce: canzone napoletana classica e moderna, edizioni di riferimento.

 

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